Concerto The National + Phosphorescent @ Alcatraz (MI) – 16/11/2010

L’attesa per il ritorno in Italia dei The National dopo 3 anni era veramente grande, in modo particolare per chi si trova al primo appuntamento con una loro esibizione live, e la scelta dell’Alcatraz come location per l’occasione pare decisamente azzeccata in quanto rappresenta il giusto compromesso tra capienza e intimità. Qualche giorno prima arriva il comunicato che annuncia il sold out della data, cosa che, oltre a tributare il giusto merito ad una band che negli ultimi anni ha sfornato 3 album di un livello raggiunto da pochi altri, rappresenta una risposta che fa ben sperare verso realtà di questo tipo, spesso e volentieri sotto-considerate in Italia. Con queste premesse arriviamo all’Alcatraz intorno alle 19:30, ritiriamo i biglietti prenotati da mesi via internet ed entriamo. Il locale è ancora piuttosto deserto e ne approfittiamo per dirigerci in zona palco dove incontriamo i ragazzi di Slowshow.org, il fan site italiano del gruppo, nella persona di Valentina, agitata e indaffarata ad organizzare gli ultimi dettagli della simpatica coreografia che hanno preparato per accogliere la band: una scritta Welcome Back in viola su cartoncini a sfondo bianco retti dalla prima fila, contornata dallo sventolare di altri foglietti viola da parte delle persone intorno. Idea decisamente carina.

Ad aprire la serata c’è Phosphorescent, ovvero quella che si presenta come una classica compagine folk alternativa proveniente da oltreoceano ma che è in realtà il progetto di un singolo, Matthew Houck, americano dalla testa arruffata, accompagnato sul palco da altri 4 musicisti. La sua esibizione parte intorno alle 20:40 e si rivela interessante fin dall’inizio; Matt è sciolto e pare decisamente a suo agio e i pezzi, che svariano tra folk, country e rock più tradizionale, scorrono piacevolmente uno dietro l’altro mettendo in risalto le buone doti vocali dello stesso Houck. Gli altri membri della formazione paiono piuttosto timidi e si limitano a svolgere, comunque molto bene, il loro compitino, ad eccezione del tastierista che condisce diversi brani con energiche progressioni che in alcuni casi sconfinano in deliri. Dopo una quarantina di minuti concludono il loro set ricevendo i meritati applausi del pubblico.

Intorno alle 21:50 escono finalmente i National, guidati da Matt Berninger nella sua consueta tenuta elegante. Aprono con Runaway e la scelta, essendo un pezzo lento e dell’ultimo album, può sembrare azzardata. Invece il brano, supportato anche a livello visivo da un video proiettato sul telone di sfondo con nuvole spinte veloci dal vento, riesce a creare un’atmosfera quasi surreale e la sensazione che si ha è senza dubbio quella di una partenza in grande stile. A seguire piazzano due brani come Anyone’s Ghost e Mistaken for Strangers e il pubblico inizia inevitabilmente a scaldarsi. Bloodbuzz Ohio, da queste parti indicata come una delle canzoni (se non la canzone) dell’anno, si conferma grande pezzo anche in versione live e ci permette di godere una volta di più delle straordinarie doti del batterista Bryan Devendorf. Con 3 dei primi 4 pezzi proposti estratti da esso, i National puntano quindi su un inizio di set fortemente incentrato sull’ultimo, bellissimo, High Violet e la precisione assoluta con cui li eseguono da quasi l’impressione di essere intenti nell’ascolto del disco stesso piuttosto che nella riproposizione live delle sue chicche. Invece i National sono proprio li, molto sereni e, con una tranquillità imbarazzante, continuano ad inanellare una dietro l’altra una serie di canzoni che sarebbe impossibile mettere in ordine di preferenza, talmente è uniformato verso l’alto il loro livello. Dedicano sentitamente SlowShow ai ragazzi del fan club, che prende il nome dal titolo del pezzo, dando conferma della loro semplicità e dell’umiltà che traspare, a dire il vero, già solo nel vedere il modo in cui stanno sul palco. L’attacco e la chiusura di Squalor Victoria, personalmente considerato il pezzo migliore, o che comunque ha offerto la resa migliore, dell’intero set, offrono un modo per sintetizzare in minimi termini quella che è l’essenza dei National: un gruppo di grandi musicisti guidati da un fuoriclasse alla batteria. Non a caso Matt, nel suo continuo peregrinare per il palco sulle parti strumentali, va spesso a cercare Bryan, quasi come a voler godere da posizione privilegiata delle sue rullate.
Lo show prosegue in modo coinvolgente in un atmosfera serena, resa tale anche da alcuni sketch offerti sul palco dai membri della band come quando, in occasione di un cambio microfono da parte di Matt, uno dei fratelli Dessner commenta con qualcosa del tipo “tranquilli è normale, ogni sera rompe qualcosa…”, o quando, a dimostrazione della loro dimensione umana, che sembra quasi perdersi nel vederli all’opera, Matt si dimentica addirittura le parole di Conversation 16, fermando tutto e riprendendo poi dai versi successivi tra i sorrisi di loro stessi, prima ancora che del pubblico. Un pubblico composto, ma attento e intento a godersi lo spettacolo musicale a cui sta assistendo, acceso dalle urla di Berninger su pezzi come Abel e poi riportato sul riflessivo da un’ottima England, il cui finale cavalcante lascia spazio alle tastiere iniziali di Fake Empire accolta con giustificato entusiasmo dal pubblico ed eseguita in un modo che migliore sarebbe difficile immaginarlo, con entrambe le chitarre dei fratelli Dessner alzate al cielo a suggellarne la prolungata chiusura.
Piuttosto a sorpresa ad aprire gli encore è Lucky You, dall’album Sad Songs for Dirty Lovers, che pone le basi per un finale di un livello raramente visto in anni di concerti; l’attacco di Mr. November, brano per cui si nutre un’affezione particolare, emoziona e fa sperare nella consueta discesa tra il pubblico di Matt che invece si limita, per cosi dire, a scendere a contatto con la prima fila rendendo comunque l’atmosfera esplosiva con le grida del ritornello. Nel suo spostamento verso la sinistra del palco, dove siamo attestati, arriviamo anche a stringergli la mano e possiamo quindi aggiungere questo ulteriore fantastico ricordo alla lunga lista di quelli che il gruppo ha già saputo regalarci durante lo svolgimento dello show.
Per motivi di tempo devono privare la scaletta di un pezzo, quasi sicuramente la versione acustica di Vanderlyle Crybaby Geeks con cui avevano chiuso tutte le date immediatamente precedenti, ma la cosa non si dimostra assolutamente un problema e, anzi, col senno di poi, possiamo addirittura ritenerci fortunati del finale a cui abbiamo assistito. Parte infatti Terrible Love e Matt scende tra la folla e attraversa, con la consueta camminata con microfono in mano e filo in spalla, tutto il locale fino a uscire e a sparire direttamente sul bus, lasciando al resto della band, che nel frattempo continua a suonare alla grande, il compito dei saluti e lasciando un pubblico, estasiato e in delirio, diviso a metà tra chi lo segue e chi si gode il momento assolutamente incredibile.

Siamo arrivati, per concludere, all’appuntamento con aspettative da “concerto dell’anno” e, all’uscita, le sensazioni non si distanziano molto da questa lunghezza d’onda; non possiamo infatti che essere soddisfatti di esserci stati e di aver visto, come ci attendevamo, un ottimo concerto di una grande, grandissima band.

Scaletta:

Runaway
Anyone’s Ghost
Mistaken For Strangers
Bloodbuzz Ohio
Slow Show
Squalor Victoria
Afraid Of Everyone
Available / Cardinal Song
Conversation 16
Sorrow
Apartment Story
Abel
Daughters Of The Soho Riots
England
Fake Empire
About Today

Lucky You
Mr. November
Terrible Love

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