Recensione: RPA & The United Nations of Sound – United Nations of Sound

Artista: RPA & The United Nations of Sound
Titolo: United Nations of Sound
Anno: 2010
Genere: pop-rock, alternative-pop

Lente d’ingrandimento: Creare una band, diventare uno dei punti di riferimento della scena del momento, sciogliere la band, far uscire alcuni discreti dischi come solista e poi riunire la vecchia storica band per un nuovo album, un tour e una headline a Glastonbury. Potrebbe essere solo un’altra delle comuni storie che arrivano regolarmente da oltremanica, se il protagonista in questione non portasse il nome di Richard Paul Ashcroft. I Verve, il capolavoro Urban Hymns nel 1997, una trilogia solista farcita di alcuni singoli di spessore e il ritorno alle origini con l’uscita, nel 2008, dell’album Forth. Oggi, siccome la creatività di un simile personaggio non si può arrestare ma ha bisogno di essere liberata, ecco il tuffo in questo nuovo progetto di cui lui rappresenta il fulcro attorno al quale ruotano gli altri membri: Steve Wyreman, protagonista con la sua chitarra e Dwayne Wright al basso, oltre ad alcuni altri elementi che si aggiungono al gruppo per gli appuntamenti live. Date le premesse, è quindi più che giustificata una certa attesa nei confronti di questo album semi-omonimo; il titolo è infatti United Nations of Sound.
Con il pezzo di apertura Are you ready?, primo singolo estratto dall’album e fatto uscire diverso tempo prima dello stesso, Ashcroft sembra quasi domandarci se siamo pronti per quello che di nuovo ha da proporci; il pezzo, sebbene non spicchi per originalità, riprende chiaramente quanto lasciato in sospeso con le sue esperienze passate e, quindi, si addice perfettamente al suo stile e alla sua voce che è pur sempre bello poter risentire. Nel finale trova spazio un lungo (occupa praticamente gli ultimi 2 minuti) assolo di chitarra, molto poco british, che però non stona eccessivamente nel contesto, anche se trascina il brano ad una durata di oltre 6 minuti e mezzo, caratteristsica anch’essa poco in linea con le tendenze odierne fatte prevalentemente di brani concisi ed essenziali, tenendo anche conto che si tratta del brano di apertura. Segue Born Again, il secondo singolo estratto, con un altro titolo forse non messo a caso, con il quale Richard pare volerci sottolineare la sua rinascita, il suo ritorno. Pezzo tutto sommato orecchiabile, anch’esso infarcito di schitarrate, anche se alla lunga molto ripetitivo. La successiva America, conferma (ancora una volta anche nel titolo) l’allontamento dalla tradizione puramente british a cui si è abituati visto il personaggio in questione, verso uno stile in cui si mischiano sonorità differenti, che qui arrivano quasi a sconfinare nel R’n’B; il risultato è abbastanza convincente e questa traccia è quella che per prima fa venire voglia di essere riascoltata. Le soluzioni proposte nel disco spaziano comunque molto e, se in This Thing Called Life si ritorna a ritmi più soft da canzone pop, con Beatitudes mr. Ashcroft si improvvisa quasi rapper su un pezzo dai battiti decisi e dall’impianto ben costruito, con la solita chitarra che svaria libera a recitare la sua parte; una parte che, a questo punto, si può definire fortemente voluta e la cui presenza rappresenta in pratica la caratteristica più evidente del disco. Good Lovin è un netto ritorno allo stile tipico dei suoi lavori precedenti e, se pur apprezzabile, anche se ancora una volta un po’ piatta, ha quindi il difetto di suonare come qualcosa di estremamente già sentito.
La seconda metà del disco continua tra tentativi di sperimentazione di strade alternative, come How Deep Is Your Man, uno pseudo-blues dal suono un po’ retrò che lascia il tempo che trova, e pezzi che più ritornano sui binari del brit-pop, come la melodica She Brings Me The Music dal finale spumeggiante, in cui la voce di Ashcroft sembra ancora vicina a quella dei tempi d’oro. L’assenza di idee significative però si fa sempre più sentire man mano che ci si avvicina alla fine del disco e gli episodi successivi, Royal Highness e Glory, sebbene presi singolarmente non demeritino eccessivamente e, anzi, possano essere etichettati come dei buoni pezzi, paiono però delle ripetizioni di quanto, in un modo o nell’altro, già fatto sentire nel corso del disco e, arrivando dopo già quasi 40 minuti di ascolto , finiscono col non venire particolarmente apprezzate se non addirittura risultare superflue. Prima della convincente chiusura con Let My Soul Rest, pezzo ben arrangiato che riesce a creare la giusta atmosfera richiesta ad un brano col compito di far calare il sipario sull’album, c’è ancora lo spazio per toccare il punto più basso del disco con la davvero bruttina, a discapito del titolo solare, Life Can Be So Beautiful.
Un ritorno quindi, quello di mr. Ashcroft, che non ripaga appieno le attese, forse anche per l’elevato livello al quale erano attestate, visto quello che ha saputo regalare in passato. Il disco infatti, a parte pochi pezzi buoni per essere inseriti in qualche playlist da viaggio del momento, dopo i primi dovuti ascolti, difficilmente riesce a far venire voglia di rimetterlo nel lettore per un riascolto completo. Peccato.

Brani migliori: America, Beatitudes, She Brings Me The Music

Brani peggiori: Life Can Be So Beautiful, How Deep Is Your Man, Glory

Voto: 6

Sito: www.richardashcroft.co.uk/news-page/

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